Il 20 gennaio 1902, tra polemiche feroci, a Bologna erano cominciati i lavori di smantellamento della cinta muraria. Si iniziò da porta Santo Stefano e da porta Lame, e nei mesi successivi si arrivò a porta Castiglione e a porta San Mamolo: 494 operai al lavoro per due lire al giorno, con turno unico dalle 7:30 alle 16:30. L’idea di rimuovere l’antica protezione medioevale era stata promossa dal sindaco Alberto Dallolio (1852-1935), deciso a togliere i 7,6 chilometri di mattoni che ostacolavano, a suo dire, il ricambio dell’aria. Ma le ragioni erano soprattutto altre: l’immensa opera di smantellamento avrebbe assicurato lavoro a fasce di popolazione facilmente infiammabili e aperto nuovi spazi all’edilizia pubblica e privata. Con le pietre ricavate dalla distruzione si sarebbe poi colmato il fossato che perimetrava ancora la città, un’iniziativa analoga a quella intrapresa da parigini e viennesi nei decenni precedenti. In Francia il barone Haussmann aveva fatto piazza pulita del nucleo medievale; in Austria Francesco Giuseppe aveva acconsentito alla rimozione delle mura medievali per spianare il famoso Ring, il viale di circonvallazione viennese.

Tutti d’accordo? Nemmeno per sogno. Il più fiero oppositore della demolizione fu Alfonso Rubbiani, restauratore, cultore della civiltà e dell’estetica medievale: era stato lui a occuparsi del recupero della maggior parte dei monumenti cittadini – Palazzo Re Enzo, dei Notai, della Mercanzia, casa Tacconi, Palazzo Sanuti Bevilacqua, l’oratorio del Santo Spirito – e con altrettanta tenacia cercò di difendere le mura come elemento identitario di Bologna. La sua battaglia, condivisa anche da Giosuè Carducci e Alfredo Oriani, non era solo un istinto da nostalgico conservatore, ma conteneva una visione urbanistica molto moderna: «La nostra civiltà attuale è frutto della critica storica, non ha più odio ma rispetto per il passato e per l’avvenire», scriveva Rubbiani nel suo accorato appello alla conservazione. «Non chiede più distruzioni ma riforme. E avrà un’idea tutta sua, originale, ragionevole, umana nella questione dei rapporti tra la vita che si svolge e l’eredità dei secoli. Invero, una vecchia malattia del genere umano deve presto guarire. Ogni generazione per edificare di nuovo, ha distrutto il più antico. Perché non costruire accanto? Il mondo è grande e lo spazio non manca». E così le mura che erano servite nel 1220 a tenere fuori città Federico II, nel 1298 il ghibellino Azzo d’Este e poi Cesare Borgia, l’esercito francese nel 1506, e tanti altri nemici, si dovettero piegare al diktat di un semplice sindaco. «E non si dica», partì Rubbiani con l’ultima invettiva, «che queste mura, queste porte, sono senza storia. Molte giornate gloriose esse narrano; sempre ebbero attraverso i secoli la funzione che la fortezza militare ha nella vita civile dei popoli, prevenire, cioè, e dileguare l’addensamento dei propositi ostili». Ma questo non bastò a salvarle dall’ultima picconata.

Qualche anno più tardi, sarà Gabriele D’Annunzio a correre (inutilmente) in soccorso di un’altra testimonianza del Medioevo bolognese: «Ed ecco Bologna minacciata di sacrilegio. Uomini mercantili, ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina, vogliono diroccare la testimonianza dell’antica libertà armata per ridurre al valore venale il suolo e per gettarvi le fondamenta di chi sa quale enorme ingiuria». L’invettiva del Vate fu scagliata contro il Consiglio superiore per le Antichità e Belle arti, che nel 1916 ordinò l’allargamento della strada del Mercato di Mezzo. Le tre torri che svettavano isolate al centro della strada (quasi di fronte al Palazzo della Mercanzia) avevano quindi un destino segnato. La loro demolizione fu ritardata di qualche mese proprio grazie alla perorazione di D’Annunzio, schierato al fianco del Comitato per Bologna storico-artistica, la Commissione per la conservazione dei monumenti dell’Emilia e la Società Francesco Francia. Le vittime designate si chiamavano Torre Artemisi, Torre Conforti e Torre Riccadonna, abbattute nel marzo 1919 per ragioni di stabilità. Ma da un certo punto di vista, D’Annunzio aveva indovinato il cuore del problema. Mantenere le Torri in quel tratto di strada avrebbe impedito la proliferazione di interi nuovi lotti edificabili.

Lo scontro tra “demolitori” e “conservatori”, insomma, non aveva nulla di ideologico, ma era solo una resa dei conti tra diverse istanze economiche. Quello che i fautori della preservazione del patrimonio medievale non capirono fu che bisognava offrire un’alternativa alle imprese edili, bisognose di dare lavoro a centinaia di operai. Ma fu una battaglia persa in partenza, calpestata da un progresso rapido, a tratti feroce, impossibile da regolamentare.